FRANCESCO PERRI (Careri 1885 – Pavia 1975): il primo scrittore antifascista della letteratura italiana e il primo cantore dell’emigrazione meridionale
Giuseppe Antonio Martino
Francesco Perri |
L’attività letteraria, che lo portò a diventare il
primo scrittore antifascista della letteratura italiana e il primo cantore
dell’emigrazione (così lo definì Mario La Cava), ebbe già inizio 1917, dopo la
rotta di Caporetto: in quei drammatici momenti della prima guerra mondiale egli
si fece poeta per cantare il dramma dei soldati in fuga, nel momento stesso in
cui esso si consumava, e scrisse il poemetto Rapsodia di Caporetto (L’eroica,
Milano 1919), che mandò a Benedetto Croce ancora manoscritto. Il filosofo
napoletano, il 6/12/1918 gli rispose con queste parole: “ È tanta la commozione
con cui ho letto le sue sincerissime pagine, che vorrei pregarla di permettermi
di conservare il suo manoscritto, per unirlo ad altro ricordo che ho raccolto
di questa nostra grande guerra”.
Il primo dopoguerra lo vide “repubblicano di antica
e viscerale vocazione”, come amava definirsi, impegnato nei conflitti sociali
di quell’epoca, tanto che, al sorgere del fascismo, non ebbe alcun dubbio che
si stesse aprendo un lungo periodo di schiavitù.
Tra il 1923 e il 1924 pubblicò a puntate su “La
Voce Repubblicana”, con lo pseudonimo di Paolo Albatrelli, il romanzo I
Conquistatori, che uscì in volume nel 1925 per i tipi della Libreria Politica
Moderna di Roma. Il libro suscitò la censura fascista e un mese dopo la
pubblicazione fu messo fuori commercio e bruciato in piazza a Roma: esso,
narrando la sanguinaria conquista fascista della Lomellina, in un quadro
fortemente realistico delle cruente lotte agrarie ingaggiate tra il 1920 e il
1922 tra squadre d’azione e leghe contadine, delle quali lo scrittore era stato
diretto testimone, come ebbe ad affermare il giornalista inglese Cecil Sprigge,
può ancora essere considerato uno dei documenti più illuminanti sull’origine
del fascismo. L’anno dopo Perri fu allontannato dal pubblico impiego e tenuto
fuori da ogni attività giornalistica per tutto il ventennio, ma spinto dalla
necessità di provvedere alla sua famiglia, scrisse il romanzo Emigranti, che
pubblicò nel 1928, al quale è legata la sua fama, e che gli procurò il premio
Mondadori, grazie a Giuseppe Antonio Borgese che era membro della giuria.
Nonostante i critici sedicenti “antifascisti”,
avallando l’ostracismo al quale Perri fu condannato dal fascismo, lo
relegassero tra gli epigoni di Giovanni Verga, Emigranti fu ristampato per tre
volte consecutive nel giro di tre mesi e tradotto in sette stati stranieri:
Stati Uniti, Inghilterra, Unione Sovietica, Germania, Spagna, Olanda e
Portogallo.
Ambientato in un paese chiamato Pandora come il
centro, distrutto dal terremoto del 1507, da cui, secondo la leggenda, dopo il
sisma, si erano dipartiti i fondatori di Careri, paese natale di Perri, il
romanzo trova ispirazione nelle usurpazioni delle terre demaniali, molto
diffuse in Calabria dopo l’Unità e che rappresentano un’importante pagina della
storia del nostro Meridione. Per meglio contestualizzare la protesta del popolo
di Pandora di cui parla lo scrittore, è necessario riportare un passaggio delle
Disposizioni governative per lo stralcio delle operazioni demaniali nelle
province napoletane, stampate a Napoli, dalle stamperie nazionali, nel 1861.
“Dopo la legge eversiva della feudalità in queste province napoletane del 2
agosto 1806, il Governo del tempo intese dare un fecondo sviluppo al principio
della proprietà privata, disponendo, che si sciogliessero tutte le promiscuità
di dominio e di usi, esistenti tra gli antichi feudatari, le Chiese ed i
Comuni: che le parti assegnate in libera proprietà a questi ultimi fossero
distribuite in quote ai cittadini più poveri di ciascun Comune, sotto la
retribuzione di un annuo canone”.
In realtà invece di essere distribuiti ai cittadini
più poveri di ciascun Comune, quei beni, in tutta la Calabria, sono stati
usurpati dalle famiglie più benestanti (cfr. Pasquale Poerio, La storia
infinita delle terre demaniali in Calabria, «Incontri Meridionali», XIII, 1993,
2/3, 139-156). Lo stesso Perri afferma che, se fossero riusciti nel loro
intento, quei «pandurioti senza sangue una volta tanto avrebbero insegnato a
tutti come si fa a farsi rendere giustizia, anche dal Governo; e avrebbero
impartita una lezione memorabile ai galantuomini […] che avevano, in altri
tempi, con l’inganno la violenza, e valendosi delle magistrature e delle
influenze politiche, usurpate quasi tutte le terre demaniali del Comune»”.
Anche quella volta, invece, davanti all’arroganza dei ricchi, alla povera gente
non restò che arrendersi nell’illusione, già alimentata per decenni e che di
tanto in tanto veniva alimentata dai più intraprendenti, che prima o poi sarebbe
giunta l’ora di fare giustizia attraverso una ribellione vera per rivendicare i
propri diritti, ma la storia del meridione insegna che i governanti e i
“galantuomini”, uniti in losca associazione, si sono sempre rivelati capaci,
usando l’inganno o la forza, di imporre agli ingenui rivoltosi di tornare a
casa fessi e gabbati, magari dopo una razzia di pomodori e di pannocchie, come
dopo quella rivolta di Pandora, creata dalla penna di Perri, alla cui testa si
era posto il sindaco ed un giovane “che sa leggere come un padreterno.
Nei giorni seguenti quella ribellione che aveva
causato l’arresto di tanti contadini, lo sconforto a Pandora fu esasperato da
un’alluvione, abbattutasi sul villaggio come una punizione divina e che provocò
immense frane, tanto che ai rivoltosi non restò altro che scappare: quaranta
uomini tra i più giovani, si apprestarono a partire. In quell’esodo drammatico
Perri sintetizza in tono epico la dura odissea delle plebi meridionali che
negli anni a cavallo tra i XIX e il XX secolo, furono costrette a scegliere la
via dell’emigrazione, così come era avvenuto nell’Italia settentrionale prima
del decollo industriale. Nel Sud della penisola, infatti, non si era mai
parlato di emigrazione, prima della proclamazione dell’Unità nazionale, anche
se quel fenomeno assunse poi dimensioni molto rilevanti.
Famiglia di Francesco Perri |
Attorno al romanzo, quando alle voci di consenso
seguirono le prime riserve, si accese una polemica: Perri fu accusato di
mancanza stilistica, di troppa indulgenza ai toni melodrammatici del più
deteriore romanzo ottocentesco. Le censure passarono dallo stile ai contenuti e
Emigranti, capitato nelle mani di Antonio Gramsci, che dalla sua cella di Turi
commentava puntigliosamente tutto il materiale che gli veniva fornito, fu fatto
segno di una feroce stroncatura, pubblicata poi nei Quaderni del carcere
(Q.VI). È utile riportare il giudizio di Gramsci: “Negli Emigranti il tratto
più caratteristico è la rozzezza, ma non la rozzezza del principiante ingenuo,
che in tal caso potrebbe essere il grezzo non elaborato, ma che lo può
diventare: una rozzezza opaca, materiale, non da primitivo, ma da rimbambito
pretenzioso. Secondo Perri il suo romanzo sarebbe “verista” e egli sarebbe
l’ispiratore di una specie di neorealismo; ma può oggi esistere un verismo non
storicizzato? Il verismo stesso del seco XIX è stato in fondo una continuazione
del vecchio romanzo storico nell’ambiente dello storicismo moderno. Negli
Emigranti manca ogni accenno cronologico e si capisce. Vi sono due riferimenti
generici: uno è al fenomeno della emigrazione meridionale, che ha avuto un
certo discorso storico e uno ai tentativi di invasione delle terre ”signorili”
usurpate al popolo che anche esse possono essere ricondotte a epoche ben
determinate. Il fenomeno migratorio ha creato un’ideologia (il mito
dell’America), che ha contrastato la vecchia ideologia alla quale erano legati
i tentativi sporadici, ma endemici, di invasione delle terre, prima della
guerra. Tutt’altro è il tentativo del ’19-20 che è simultaneo e generalizzato e
ha organizzazione implicita del combattimento meridionale. Negli Emigranti
tutte queste distinzioni storiche che sono essenziali per comprendere e
rappresentare la vita del contadino, sono annullate e l’insieme confuso si
riflette in modo rozzo, brutale, senza elaborazione artistica. È evidente che
Perri conosce l’ambiente popolare calabrese, non immediatamente, per esperienza
propria sentimentale e psicologica, ma per il tramite di vecchi schemi
regionalistici (Se egli è l’Albatrelli occorre tener conto delle sue origini
politiche, mascherate da pseudonimo). L’occupazione (il tentativo di) a
Pandore, nasce da intellettuali, su una base giuridica (nientemeno che le leggi
eversive di G. Murat) e termina nel nulla, come se il fatto (che pure è
verbalmente presentato come n’emigrazione di popolo in massa) non avesse
sfiorato neppure le abitudini di un villaggio patriarcale.
Puro meccanismo di frasi. Così l’emigrazione:
Questo villaggio di Pandore con la famiglia di Rocco Bléfari è (per dirla con
la parola di un altro calabrese) un parafulmine di tutti i guai. Insistenza
sugli errori di parola dei contadini che è tipica del brescianesimo, se non
dell’imbecillità letteraria in generale. Le macchiette (il galeotto ecc.)
compassionevoli, senza arguzia e umorismo. L’assenza della storicità è “voluta”
per poter mettere in un sacco alla rinfusa tutti i motivi folcloristici
generici, che in realtà sono molto ben distinti nel tempo e nello spazio”.
Perri fu dunque coinvolto, insieme a molti suoi
contemporanei, nell’accusa di “brescianesimo” (termine coniato da Gramsci sul
cognome dello scrittore Antonio Bresciani, gesuita, acceso avversario del
liberismo risorgimentale e del Risorgimento), malattia assai diffusa durante il
fascismo che Gramsci definiva come “Gesuitismo, individualismo antistatale e
antinazionale, restaurazione, repressione”, tipico di numerosi rampolli di
padre Bresciani.
Il giudizio gramsciano, che possiamo definire
eccessivamente severo se non fondamentalmente errato, si è ripercosso
pesantemente sulla fortuna del libro, che non ha avuto ulteriori edizioni fino
alla morte dell’autore: venne ristampato soltanto nel 1976 dalla Lerici di
Cosenza e, più tardi, nel 2001 dalla casa editrice Qualecultura di Vibo
Valentia.
Perri rispose per le rime e nel suo diario inedito
(una parte è stata pubblicata da Mario La Cava il 6 ottobre 1979 su “La
gazzetta del popolo”), così scrive di Gramsci: “Quel giovane aveva certo delle
grandi qualità, che nessuno può disconoscere, ma era di una presunzione
incommensurabile e aveva una mentalità di tipo teologico che atterrisce. Una
specie di gesuita, quindi uomo adattissimo al partito comunista. Tutte le sue
intuizioni, a volte brillanti, l’acutezza dei suoi ragionamenti, un certo gusto
letterario di sensibilità moderna; tutte queste belle qualità sono inficiate
dal pregiudizio …
È da ammettere, però, pur non condividendo il
giudizio di Gramsci, che il limite più grosso di Perri è da riconoscersi nello
stile non molto elaborato che riprende le tecniche narrative tradizionali del
romanzo ottocentesco, cercando di incastonare in un piano unico molteplici
filoni narrativi. “Con Emigranti – riconosce Antonio Piromalli, nella sua
Letteratura Calabrese, Cosenza 1996, (vol. II p. 274) abbiamo una mancata
adesione alla cultura moderna e ai sistemi formali moderni, la concezione dello
scrittore appartiene alla tradizione secolare dell’intellettuale italiano che
esprime indifferenza per la realtà ritenendosi superiore o estraneo al corso
della storia”.
È forse vero che la drammaticità sembra avere uno
sfondo superficiale, più di ripetizione sentimentale che di vera invenzione e
il linguaggio di Perri, in verità, talvolta indulge alla facilità e le
situazioni appaiono melodrammatiche, ma è anche vero che il tema di Emigranti
può disporsi nella storia del costume e della vita calabrese come un moderno
lamento, severamente ritmato, un moderno “planctus”, che si accende su poche
note cupe.
Dopo Emigranti Perri continuò a scrivere
ininterrottamente per un trentennio, ma la successiva produzione scese
decisamente di tono rispetto al capolavoro. Si tratta di romanzi e raccolte di
novelle in cui si alternano motivi descrittivi di letteratura dedicata
all’infanzia: Come si lavora nel mondo e Povero cuore (1934), Capitan Bavastro,
Racconti d’Aspromonte, Il discepolo ignoto (1940). Finalmente, nel dopoguerra
lo scrittore di Careri poté riprendere l’attività giornalistica assumendo la
direzione della “Tribuna del Popolo” di Genova prima e della “Voce
Repubblicana” di Roma poi e pubblicare, nel 1944, Il discepolo ignoto, un
romanzo poco impegnativo sulla predicazione di Cristo in Palestina, edito da
Garzanti, metafora del dolore del mondo e nel 1946 riapparve, sempre per i tipi
di Garzanti, il romanzo I Conquistatori, con una prefazione in cui Perri,
dimostrando di aver conservato, nonostante la violenza subita, integra la sua
libertà ha voluto porre l’accento sulla schiavitù culturale alla quale il
regime mussoliniano aveva sottoposto l’Italia.
Francesco Perri ragazzo |
Nel 1948 pubblicò Fra’ Diavolo e nel 1958 Il paese dell’ulivo e L’amante di zia Amalietta. In L’amante di zia Amalietta (Ceschina) ritornano gli spunti sociali, e diventano più espliciti il moralismo e l’antifascismo. Si tratta di una satira sociale e politica della Milano Borghese con riferimenti retrospettivi alla corruzione morale dell’epoca fascista: attraverso le vicende esistenziali di alcuni giovani, narrate in prima persona da uno di loro, Berto Ameduri, in un intrico di morti e di complicità, con un linguaggio avvincente, l’autore affronta il problema della crisi, anche morale, che la gioventù educata dal fascismo si è trovata a vivere nel momento in cui l’Italia veniva coinvolta in una guerra assurda.
Negli ultimi trenta anni della sua vita lo
scrittore di Careri scrisse e riscrisse due romanzi “Tramonto sul mondo” e ”Il
puro folle”, ma alla sua morte, tra le sue carte, i familiari non ritrovarono i
testi: l’autore li aveva distrutti come aveva promesso di fare se non fosse
riuscito a portarli a termine. Per fortuna rimase il “Diario” che egli scrisse
dal 1952 al 1968, e nelle cui pagine egli ha lasciato testimonianza del suo
amore per la Calabria: “Tutta la vita coltivai il progetto di farmi una casa in
Calabria, non sul mare, ma in vista del mare con poca campagna intorno, un
frutteto e la terra appena sufficiente per ricavare quanto basta ad una modesta
famiglia [ …]. Tornare al tempo in cui ero ragazzo, quando andavo a prendere
l’uovo appena ponduto dalla gallina che scoccodava; mangiavo la ricotta calda
fatta in casa, il galletto che veniva dalla campagna, il piccione grasso che
cresceva nel mio solaio e bevevo il vino spillato dalla botte, e la frutta
staccata dalle mie mani: i fichi della fontana dove avevamo l’orto, e le pere
invernali che tenevamo appese sotto il tetto, dolci e succose fino a Natale.
[…].se fossi solo potrei farlo anche adesso, attuare questo antico sogno, ma ho
i figli e lontano da loro non riuscirei a vivere, neanche in Paradiso. Ed è
giusto che sia così”.
In Calabria Perri è tornato, secondo la sua volontà e come gli emigrati di un tempo, che conservavano intatta la nostalgia del paese perduto, per trovare a Careri, dopo la morte, quella pace che nessun angolo di mondo era riuscito a dargli … e quel mondo che lo a aveva osannato e disprezzato non spese una parola per ricordare ciò che nella vita aveva fatto: solo una immensa folla di contadini accorse da tutti paesi della Locride per onorare colui che per primo aveva scritto delle decine di migliaia di Calabresi che, dopo l’unificazione d’Italia, sono stati costretti a scappare dalle loro terre.
Grazie per questo bel resoconto della vita, delle opere e del pensiero di Francesco Perri. Spero di riuscire a farne buon uso per un mio ulteriore approfondimento e conoscenza dell’uomo Perri.
RispondiEliminaFrancesco Macrì , nato a Careri e residente a Pavia.