Cristina Caminiti
Abbiamo intervistato Virgilio Perri, figlio di Francesco Perri, per conoscere più da vicino l’autore dal quale parte la nostra iniziativa culturale. Ebbene, il dialogo con Virgilio Perri, seppur in maniera telematica, è stato una scoperta affascinante. Il professore, persona squisita ed elegante, ha delineato i suoi ricordi di bambino e ragazzo, rispondendo pazientemente alle domande via e-mail. Una scoperta che ci pone una riflessione importante: la memoria è intrisa nelle persone, da essa si attinge sapienza, dunque per imparare è necessario ascoltare di modo da protrarla nelle generazioni.
Suo padre
ebbe come primo elemento di paragone della nuova società moderna Reggio
Calabria e immediatamente dopo la grande metropoli di Milano che ha molto
apprezzato. Tuttavia Francesco Perri, potremmo dire, è un uomo di “umile terra”
e una terra che spesso descrive come martoriata e abbandonata dalle
istituzioni. Ma quanto credeva nella sua amata Calabria Francesco Perri?
Nelle “strutture” della sua amata Calabria, come
dice Lei, mio padre non credeva affatto. Penso che siano state proprio le
strutture medievali allora esistenti, e le squallide e illegali modalità della
loro gestione le ragioni per le quali mio padre cercò di lasciare Careri,
abbandonare Reggio Calabria e trovare rifugio altrove. Non a Milano, ma perfino
in un piccolo centro di provincia come Fossano, in Piemonte, e poi a Torino
dove mio padre si laureò in Giurisprudenza.
Tuttavia, l’amore di mio padre per la sua “amata Calabria”, per la sua gente e i suoi paesaggi fu sempre particolarmente profondo. Basti pensare alla sua forte volontà, per noi ancora un po' indigesta, di essere sepolto a Careri, lontano da noi, suoi figli, lontano dalla tomba di mia madre con la quale aveva vissuto per sessanta anni, lontano dall’ambiente culturale col quale aveva avuto una lunga e proficua dimestichezza, ma vicino alla sua terra, alla sua gente, agli splendidi paesaggi che hanno ispirato tanta parte della sua opera.
Nell’affrontare la scrittura Francesco Perri parte da esperienze di vita reale, in che misura le scelte politiche e sociali incisero sulla sua letteratura?
È per me impossibile separare l’opera artistica di mio padre dal suo impegno politico-sociale. È stato il suo modo di interpretare la vita reale che ha pervaso poi la sua vita artistica. Basti pensare che mio padre, quale “unico sostegno di madre vedova”, era esentato da ogni impegno militare e invece, nel 1916, proprio nell’anno in cui nasceva Giulio, il primo di noi, suoi figli, andò in guerra come volontario. Come mi diceva spesso, aveva ritenuto cosa colpevole il sottrarsi all’epocale esperienza che impegnava allora tutta la sua generazione, nella lotta fra democrazia ed autoritarismo. È stato proprio questo modo di interpretare la vita che ha ispirato poi tanta parte dell’opera di mio padre legata alle lotte contro l’ingiustizia sociale.
Nel ’20 durante una visita alla madre si ritrova a partecipare alla battaglia per la rivendicazione delle terre demaniali. Il fascismo stava prendendo piede, i contadini reduci della prima guerra mondiale si sentivano traditi da uno Stato che gli aveva fatto promesse effimere e morivano di fame. È stato in questo momento che Perri decise di iniziare quella che sarà la lotta antifascista? Cosa stava succedendo nelle campagne e quali erano i sentimenti di suo padre a tal proposito?
I Conquistatori viene pubblicato in un momento di grande rilevanza storica: il Fascismo si era dilagato per le strade e la libertà di stampa a pensiero stavano giungendo al silenzio forzato. I conquistatori è un romanzo assai scomodo per la stampa fascista tanto da essere dato alle fiamme, tuttavia diventerà addirittura un modello di senso civico per Mario La Cava che scriverà I fatti di Casignana dedicandolo all’amico. Al di là della trama, so che allora era ancora un bambino, ma suo padre si portò dietro gli strascichi della paura o fu solo un motivo che incentivò la sua lotta? E quali erano i suoi sentimenti, come figlio, in questa situazione?
Fra la domanda del punto 3 e quella del punto 4 c’è un rapporto diretto e penso di poter rispondere ad entrambe con analoghe considerazioni. Intanto mio padre non conosceva la paura. Non perché fosse un uomo d’azione o un impavido lottatore ma perché, come ho già sottolineato nelle domande precedenti, erano gli ideali di giustizia e di equità sociale che guidavano sia la sua vita che la sua opera. Negli stenti dei contadini dell’Oltrepò pavese, descritti nei Conquistatori, papà aveva riconosciuto quelli dei contadini di Careri descritti in Emigranti. Nell’arroganza e nella ferocia delle squadre d’azione fasciste della Lomellina, papà aveva riconosciuto i meccanismi autocratici e violenti di repressione, applicati dai grandi proprietari terrieri della Calabria ed ecco il motivo e l’incentivo della sua lotta e della sua opera in entrambi i casi.
Il romanzo di maggior fama è sicuramente Emigranti, ma vi è un’opera alla quale suo padre era legato più delle altre?
A questo proposito devo dirle che l’opera alla quale mio padre più teneva è quella che non finì mai di scrivere. Si tratta di un romanzo dal titolo “Tramonto sul mondo” al quale, per anni, mio padre dedicò la sua opera. L’argomento e lo scenario del romanzo sono quelli della prima guerra mondiale. Riguardano le ragioni per le quali la sua generazione e lui stesso avevano affrontato con coraggio la tragedia della guerra con il proposito e la speranza di distruggere le strutture autoritarie degli imperi centrali e consolidare un nuovo mondo basato sulla democrazia popolare. Il tema fondamentale è quindi quello dei risultati di questo immane dramma: milioni di morti e non l’affermazione della democrazia ma l’avvento invece di regimi ancora più perversi come il fascismo e il nazismo. Alla redazione di questo romanzo mio padre dedicò molti anni, molte parti ne scrisse ma non lo finì mai. Certamente l’opera non avrebbe potuto vedere la luce negli anni del fascismo e le molte pagine scritte finirono poi bruciate nei bombardamenti che, nel 1943, distrussero la nostra casa a Milano.
È mai stato in Calabria? Se così, cosa pensò la prima volta che andò?
Domanda difficile. La prima volta che andai in Calabria fu nel 1948. Stavamo allora noi a Genova e io facevo il terzo anno di Medicina. Certo, l’impatto di quella nuova esperienza fu forte e contraddittorio. Careri era allora un piccolo paese di case sbrecciate, senza un solo negozio, popolato da gente miseramente vestita e che parlava un idioma per me incomprensibile. Solo mio cugino Vincenzo, figlio di mio zio Beniamino, sembrava appartenere al mondo che conoscevo. Di primo acchito tutto lo scenario mi sembrò allora fortemente esotico ed estraneo. Tuttavia, nel mondo in cui io vivevo, fra le persone estranee i rapporti erano superficiali, freddi e formali. Invece a Careri fui subito immerso in una marea di manifestazioni d’affetto; tanti parenti che non conoscevo vennero a testimoniarmi la loro amicizia e il loro attaccamento. Capii subito che le molte differenze erano dovute al diverso regime di vita e non al carattere della gente, che la società meridionale era più aperta, più generosa e più disposta ad aprire il proprio cuore e finii per passare 15 lieti giorni dei quali ancora trattengo un profondo ed affettuoso ricordo.
Qual era il suo rapporto con suo padre? Parlava mai degli ideali politici con i figli?
Il rapporto con mio padre è stato intimo, importante e formativo. Ricordo che nel periodo in cui frequentavo la scuola elementare (intorno al 1930-36), appena dopo pranzo, mio padre mi prendeva con sé e mi portava in quel giardino che a Milano chiamano “il Parco”; lì passeggiavamo e mio padre mi istruiva e mi educava insieme. Papà aveva una fantastica cultura classica e ne fanno fede i “Profili” da lui scritti, nei quali vengono illustrate la vita e le opere di tanti protagonisti dell’antichità. Di essi mi parlava, dei loro ideali di giustizia, della loro moralità, della loro indifferenza davanti alle ricchezze e al lusso. Non mi parlava della cronaca fascista e dei suoi misfatti ma delle virtù sociali e di vita di Coriolano, di Cincinnato e di tanti altri protagonisti della nostra storia. In pratica l’insegnamento era un insegnamento fortemente antifascista ma veniva fatto in maniera ancora più convincente, esaltando proprio i principii morali e sociali dal regime fascista calpestati.
Avete visto distruggere la casa a Milano dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Con essa, immagino, siano andati distrutti libri e manoscritti di valore. Cosa avete fatto e come reagì suo padre?
Questa è stata una imperdonabile leggerezza di mio padre. Fino a tutto il 1942, a Milano, gli echi della guerra erano stati lontani e ben pochi avrebbero potuto prevedere i terribili bombardamenti dell’Agosto 1943, nei quali un enorme patrimonio storico di libri e di manoscritti di mio padre andarono distrutti.
Nel ’32 fu arrestato con l’accusa di mantenere i contatti con i fratelli Rosselli e il loro gruppo di Giustizia e Libertà. Era vero? Secondo lei, se non fosse stato frenato dalla coscienza di avere una famiglia, suo padre avrebbe continuato con maggiore esposizione la lotta al fascismo?
La risposta alla prima di queste domande è: sì e no. Nel 1932 un amico di mio padre del quale non ricordo il nome (avevo allora 6 anni), voleva espatriare e cercava un contatto presso gli ambienti antifascisti in Francia. Papà gli scrisse una lettera di presentazione indirizzata alla Sig.na Maria Dell’Isola, persona realmente esistente ma che, negli ambienti antifascisti, era nota come uno dei contatti necessari per entrare in rapporto con il gruppo dei fratelli Rosselli. Ricordo che i fratelli Rosselli erano riusciti a fuggire dal confino, nell’isola di Lipari, al quale li avevano condannati le autorità fasciste. Per questo fatto, fra gli antifascisti i Rosselli venivano anche designati come “i fratelli dell’isola”. Le autorità fasciste erano al corrente di tutto ciò e riuscirono ad arrestare a Ventimiglia l’amico di papà e a sequestrare la lettera da mio padre indirizzata a Maria Dell’Isola. Mio padre finì perciò in prigione sotto l’accusa di aver rapporti con gli ambienti antifascisti legati ai fratelli Rosselli. L’accusa era, come ho detto, in effetti vera ma la Sig,na Dell’Isola esisteva davvero e neppure l’autorità fascista fu in grado di istruire un processo su basi così evanescenti. Mio padre si fece perciò soltanto qualche mese di carcere e dovette poi essere rilasciato.
Qual era il clima in casa durate la persecuzione da parte del fascismo nei confronti di suo padre?
Certo, la vita della nostra famiglia fu, in quegli anni, tormentata dalla persecuzione alla quale fu assoggettato mio padre. Il suo nome non poteva apparire su alcuna pubblicazione. La nostra sopravvivenza fu allora legata alla generosità e al coraggio di alcuni amici di mio padre, cito, ad esempio, Bianchi, allora direttore del “Corrierino dei piccoli” che accettava scritti di mio padre sotto lo pseudonimo di Ariel, cito Eligio Possenti, allora direttore della “Domenica del Corriere” sulla quale mio padre poteva scrivere con lo pseudonimo di Nepos e cito il vecchio Rizzoli che ospitava mio padre sulle riviste femminili di sua proprietà. Così riuscimmo noi figli a sopravvivere. Ricordo con quale frequenza si presentavano in casa nostra gli agenti dell’OVRA dicendo: “Avvocato diamo un’occhiata alle carte” e buttavano per aria tutto l’appartamento. Ricordo che quando a Milano veniva il Duce o qualche suo importante seguace, papà, insieme a tanti suoi amici repubblicani e socialisti, si faceva una settimana nel carcere di San Vittore senza che nei suoi confronti fosse formulata alcuna accusa o istruita una pratica processuale. Certo, spinto da questa persecuzione e consigliato anche da tanti amici repubblicani, mio padre pensò a lungo di espatriare e di unirsi alla resistenza antifascista. Poi, la preoccupazione per tutti noi e per la nostra sorte fu più forte della spinta a partecipare alla lotta antifascista. Papà rimase in Italia e scelse di sottoporsi alle angherie del regime. La colpa fu di noi figli.
Se Franscesco Perri fosse ancora qui con noi cosa direbbe dell’attuale situazione italiana e in particolare di quella calabrese?
Ogni risposta a questa domanda non può che essere ipotetica e arbitraria. Certo se la domanda fosse: crediamo che gli ideali che hanno ispirato la vita e le opere di Francesco Perri si siano ormai realizzati nel nostro paese, la domanda potrebbe essere più facile e la risposta sarebbe assolutamente negativa.
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