Autoritratto Michelangelo |
La Voce Repubblicana - 9 giugno1925
Poichè tutti i giornali si sono
occupati della mirabile scoperta, fatta dal dott. Francesco La Cava, del volto
di Michelangelo in un dipinto del grande artista fiorentino, e poiché l’interesse
intorno a quelle che giustamente Steinman chiamò l’ultima e più bella leggenda
michelangiolesca, è vivissimo, non sarà inutile forse tracciare per il pubblico
della “Voce” un profilo di questa singolare medico calabrese.
Prima di tutto bisogna dissipare
ogni equivoco. Il Dott. La Cava, amatore di cose d’arte, squisito conoscitore
di musica, visitatore assiduo di musei e di esposizioni, non è affatto, come
potrebbe credere qualcuno, uno di quei medici mancati, che invece d’imboccare una
scuola di archeologia, imboccò una clinica, ed ora porta per le sale dei musei
la sua malinconia di uomo che ha sbagliato strada.
E nemmeno è uno di quei
dilettanti di ogni arte che perdono il loro tempo a delibare nei diversi campi
del bello il miele di squisite interpretazioni peregrine. Egli sarebbe
desolatissimo se la sua scoperta dovesse generare una simile leggenda. Il dott.
La Cava è medico, e che medico! Esercita con amore ed onore la sua professione,
e non cederebbe la sua fama di clinico valentissimo, di rara sensibilità e
perspicacia, per la fama di Cristoforo Colombo.
Non essendo un professionale
dell’arte non si può neppur chiamarlo un dilettante: egli per l’arte in genere
non perdette mai più tempo di quanto perdono d’ordinario gli uomini colti, per
farsi una buona e solida cultura, senza ombra di specializzazioni. Nelle sue
carte nessun minuzioso ricercatore riuscirebbe a rintracciare dieci righe di appunti
intorno ad un argomento di pittura o di scultura o di musica. I volumi numerosi
consultati dopo la sua scoperta nella Sistina, dimostrano chiaramente che egli
era lontano mille miglia dalla cultura libresca.
Francesco La Cava |
Laureatosi in medicina a Napoli circa 25 anni fa, dopo aver disimpegnato il suo obbligo militare in qualità di ufficiale medico dei bersaglieri, avrebbe voluto stabilirsi in una grande città e continuare gli studi di medicina, la sola materia che egli considera come sua. Ma esigenze familiari - non di natura economica - essendo i La Cava agiati, ma di natura sentimentale - lo chiamarono nel suo borgo nativo, ch’è anche quello del sottoscritto: Careri in provincia di Reggio.
Vi lascio immaginare la sua
malinconia! Careri è un paesello nell’interno sulla costa Jonica, sciorinato
come un piccolo bucato un po’ sudicio fra gli uliveti, gli orti, i campi di grano,
sopra una collina rocciosa a quattrocento metri sul mare. Un mucchio di case
per la maggior parte di gesso, dove il solo edificio di lusso era, in quei
tempi, la chiesa protopapale, ora cadente anch’essa.
Abitanti 1500, compresi gli
emigrati; bella vista sullo Jonio, bellissima verso l’Aspromonte, dalla piana
della Marchesina a capo Zeffirio, e basta. Relegarsi in un simile ambiente per
tutta la vita non era allegro, per uno che era appassionato di tutto quanto è
bello, nuovo e civile. Ma il dott. La Cava, che non si scompone mai, non si
scompose neppure in quella occasione. Attese gli eventi.
Ricordo ancora il contenuto di
una lettera ch’egli mi lesse, ridendo, in quei giorni, una lettera di un medico
napoletano, un certo dott. Gazzilli, mi pare, al quale egli aveva comunicato la
sua mala ventura.
“Ti compiango sinceramente, - gli
diceva il Gazzilli - il tuo ingegno, la tua volontà, la tua intelligenza non
meritavano un così triste destino. Sarai medico condotto, e ti avrai la tua
patente d’asino, approvata dalla Giunta e convalidata dal Sindaco”.
A Careri per varie ragioni non
poté ottenere la condotta, ma ebbe un’offerta a Bovalino Marina, grosso
paesotto, a due ore di vettura da Careri. In quel tempo io avevo contratta la
febbre di Malta, e per consiglio del La Cava, mi trasferì in una sua casa di
campagna, a due chilometri circa dall’abitato, ma più in alto.
Particolare volto di Michelangelo - Giudizio Universale |
Egli mi veniva a trovare tutti i giorni, con qualunque tempo e si attardava con me lungamente nella stanzetta bianca, dove io allineavo davanti ad un Dante rilegato, delle fialette di iniezioni ipodermiche, dopo aver messo dentro ognuna una piccola margherita dorata.
Era l’aprile del 1904 credo,
“vado a Bovalino”, mi disse e vi andò di fatti verso la fine del mese. Condotta
rurale £ 1200 annue. Ma Bovalino intellettualmente valeva Careri, ed anche meno
forse. Che fare? Prima di tutto bando alle distrazioni. Uomo di limpidezza di
costumi quasi virginali, prese moglie, si arredò con cura una sua casa, comprò
un microscopio ed una pianola e si estraniò dall’ambiente: vita professionale
intensa, ricerche scientifiche e musica, specialmente di Beethoven.
Cominciò con un accurato ed
originale studio sul Kalazar, poi un altro sul “bottone d’Oriente”, poi uno sul
“Beriberi”, e credo sia stato il primo in Europa ad aver esperimentato la cura
della “dissenteria per amebe” con iniezioni di emetina. Tutto questo stando a
Bovalino e facendo il medico condotto. Quando era pronto per la libera docenza
in patologia tropicale, scoppiò la guerra ed egli fin dall’ottobre 1914 venne
richiamato in qualità di tenente medico.
Fu un disappunto gravissimo.
Lontano dalla politica come tutti gli uomini puliti, amante dell’ordine, egli
odiava la guerra come tutto ciò ch’è torbido, violento ed irregolare. Ciò
nonostante fece la guerra e che guerra! Fu sul S. Michele nel terribile anno
1915-1918, allontanandosi solo qualche giorno per dare la libera docenza a
Roma. In seguito promosso capitano passò agli ospedali di Treviso e quindi
promosso maggiore venne a Roma alla direzione di un ospedale. Nel dicembre del
1917, reduce io della terribile ritirata, lo trovai, a Roma, angustiato e nervoso.
Nel suo ospedale un capitano aveva commesso delle irregolarità contabili ed egli
era irritato per il fatto che a lui medico, che non aveva competenze
amministrative, veniva affidata la noia anche dell’amministrazione. Finita la
guerra, dopo esser stato in diverse commissioni sanitarie centrali, venne
congedato e si stabilì a Roma, dove fa il medico con fortuna e con zelo.
Non vuole essere, e non è che un
medico eccellente, geniale, qualche cosa come uno di quei maestri del
Rinascimento che erano scultori e pittori, ma anche umanisti, poeti e occorrendo
filosofi e politici. E allora ci si domanda, come pervenne questo medico militante,
che non si occupa di ricerche erudite, alla mirabile scoperta del volto di Michelangelo?
Per una intuizione geniale, e per una più geniale interpretazione della psicologia
del grande fiorentino.
Il La Cava, parlandomi lo scorso
dicembre in casa sua della sua scoperta, insisteva su questa interpretazione,
come sopra un punto capitale. Michelangelo fu un uomo infelicissimo, la sua
vita fu una continua tragica lotta contro gli eventi e contro se stesso. Tutte
le sue figure sono piene di sofferenza aggressiva, lottano, si torcono come consumate
da un fuoco interiore; i suoi angeli sono titani, i suoi profeti interrogano l’invisibile
come i maestri il discepolo.
Giudizio Universale, Cappella Sistina, 1535-1541 |
Fu un uomo agitato e combattuto da una tremenda volontà e da una più tremenda potenza. A quest’uomo, oppresso dalla sua forza e dalla sua solitudine, che aggrediva il marmo come un nemico da frantumare mentre egli aveva riempito la piazza di San Pietro di blocchi di marmo per quella specie di Olimpo che doveva essere la tomba di Giulio II, viene imposto di affrescare la Sistina, di cimentarsi, cioè, con i più grandi affreschisti del tempo, in una forma d’arte che non era la sua, poichè si sentiva soprattutto scultore. Fu allora che egli più dolente ed aggressivo che mai, si chiuse nel suo tremendo corruccio e per cinque anni, fuori da ogni commercio umano, creò con una furia ed una potenza che ancora pare rombare come una tempesta nella volta terribile. E alla fine del suo lavoro, presentando, davanti al Cristo minaccioso, l’umanità al supremo giudizio, egli non si presenta in una figura umana, poichè la sua vita è mancata nel suo pensiero, ma dipinge il suo volto di artista, corrucciato nella pelle del santo scorticato vivo, e questo santo raffigura, in un gesto minaccioso verso il giudice supremo, quasi protestando per il suo martirio.
Da questa visione poetica e senza
dubbio sublime di tutta la vita dell’artista, nasce la scoperta del dott. La
Cava, non da ricerche pazienti e da faticose erudizione. Dopo questa scoperta
al “Giudizio”, già così potente e drammatico, si aggiunge una significazione
nuova.
Un nuovo personaggio entra in scena, l’autore, e recita in quel finale spaventoso dell’umanità, il suo dramma. Nessuna interpretazione dell’opera di Michelangelo è così grandiosa come questa del medico calabrese.
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