L'Unità, 14 dicembre 1949: Francesco Perri sulle usurpazioni dei baroni in Calabria




Francesco Perri, L'Unità Dicembre 1949

Caro Ingrao, “L’Eco della Stampa” mi recapita oggi il ritaglio di un tuo articolo apparso su l’Unità del 13 Novembre, riguardante i luttuosi avvenimenti del crotonese; nel quale articolo tu, fra i nomi degli scrittori che hanno - come tu dici- debito d’arte verso quella regione sventurata citi il mio. Tu sei forse troppo giovane per ricordarlo, ma il mio si potrebbe dire, sotto un certo punto di vista, essere più un credito che un debito, se crediti io potessi vantare verso la mia cara terra natale. Fin dal giugno 1928, nel mio romanzo “Emigranti” apparso per i tipi del Mondadori, io presentavo il problema delle terre demaniali del Mezzogiorno in tutta la sua realtà e drammaticità; anzi il libro era stato impostato su un episodio realmente accaduto e del quale ero stato un po’ protagonista. Credo valga la pena, ora che un nuovo episodio sanguinoso lo riporta a galla, rievocare i fatti di allora per dimostrare, se ancora fosse necessario dimostrarlo, come in ogni tempo la classe politica dirigente italiana sia abituata ad amministrare la giustizia dei poveri. Ecco i fatti. Nel 1920 i reduci della prima grande guerra, organizzati nell’associazione combattenti, presero in mano le redini di molti comuni con l’ingenuo proposito di attuare qualcuna delle promesse fatte ai soldati durante il conflitto. Anche a Careri, mio paese natale nella provincia di Reggio, furono eletti degli ex combattenti, e poiché uno dei più vecchi problemi da risolvere era quello della rivendica dei beni demaniali, i neo eletti, con una delibera consiliare votata all’unanimità, chiesero al Prefetto l’invio di un agente demaniale perché decidesse, nella forma più ortodossamente legale, quali erano le terre usurpate al Comune. Nel mio romanzo sono riportati alla lettera i precedenti, come io li ho ricavati dagli archivi comunali, ed essi, anche per la loro efficacia operativa, hanno strana somiglianza con le grida manzoniane. La prima operazione, che risale al 1853, aveva assegnato un gruppo di terre usurpate al Comune e demandato al Sindaco del tempo “il carico - come dice testualmente il documento- di edificare delle colonnette di fabbrica in modo da non venire più alterati i termini”.

Naturalmente l’operazione non ebbe alcun effetto e nel 1889 ancora una volta, su richiesta del Comune, l’agente Bosurgi veniva mandato per dirimere la questione. Anche questa operazione andò a vuoto e nel 1898 il consiglio comunale spediva al Prefetto di Reggio altra delibera, della quale credo utile riportare la chiusa testualmente. “Il Comune non cessò mai di reclamare le benefiche leggi eversive, abolitive della feudalità, concesse a beneficio e sollievo dei suoi cittadini. Il presente conato è l’ultimo. Al Comune si parano davanti due sole vie: le reintegre demaniali e così tirare avanti l’esistenza e sostenere la povera famiglia, o disertare il paese imprecando ed emigrando in America, in cerca di quel pane che il proprio paese gli nega”. É inesatto, dunque, quanto afferma Corrado Alvaro in un suo articolo sulla “Stampa” del 26 Novembre, e cioè, che non si è mai trovato in Calabria un Sindaco che osasse rivendicare al proprio Comune la sua quota dei circa 500 mila ettari in terre demaniali usurpate. Se in un paesello di gente particolarmente pacifica com’è il mio, nel termine di cinquant’anni vi furono tre tentativi di rivendica, si può arguire quanti essi furono in tutta la Calabria. La verità è che detti tentativi si trovarono sempre davanti il triplice muro invalicabile degli interessi costituiti, delle camorre politiche locali e della complicità delle autorità tutorie. Il triplice sbarramento, come vedremo, funzionò magnificamente nel 1920-21. Davanti alla richiesta del Comune, il Prefetto del tempo, Commendator Coffari, a cui in seguito il Fascismo, per i suoi buoni servigi, conferì il Laticlavio, non si sognò neppure di mandare l’agente demaniale. Allora i contadini combattenti, esasperati per le tergiversazioni dell’autorità e spinti dall’esempio di altre sezioni, che occupavano terre dovunque, presero una decisione che nella sua incredibile ingenuità sarebbe comica, se non avesse un retroscena tanto doloroso. Inchiodarono su due pali i ritratti del re e della regina, spiegarono al vento la bandiera del Comune e con quegli stendardi in testa e un tamburo, partirono per prendere possesso delle terre contestate. Il Prefetto, che non aveva mandato l’agente demaniale, si affrettò a mandare i carabinieri, l’associazione combattenti fu denunziata come associazione a delinquere - testuale - e la spedizione finì nel panico e nello sconforto di quei poveri contadini. Nel febbraio del ‘21 essendomi io recato in Calabria, per rivedere mia madre, trovai la sezione combattenti nella situazione più drammatica. Quei poveretti non avevano seminato un chicco di grano, un accordo stipulato tra i proprietari e i combattenti, con l’avallo del Prefetto, non era stato rispettato, e i contadini avevano davanti lo spettro di una annata senza pane. Poiché anch’io ero un combattente, mi recai dal Prefetto insieme al Sindaco e al venerando prof. Tiberio Evoli, allora deputato socialista, per invocare il rispetto dell’accordo stipulato. Non solo non ottenni nulla, ma al mio ritorno appresi che un maresciallo dei carabinieri era venuto per arrestarmi; e lo avrebbe fatto, se il medico locale non lo avesse dissuaso. Quel mio intervento mi fruttò una condanna a due mesi di carcere e una spesa di sei mila lire, di quelle di allora.


Oggi a 22 anni di distanza, la questione delle terre demaniali usurpate si ripresenta intatta, allo statu quo ante. Bisogna riconoscere che, dopo circa un secolo e mezzo, la trama degli interessi e i passaggi di proprietà sono talmente intricati, che essa non potrebbe essere risolta se non con un provvedimento rivoluzionario. Ma anche dove essa potrebbe essere affrontata, coloro che lo tentassero si troverebbero davanti, oggi come ieri, il triplice sbarramento che sopra abbiamo deplorato. Intanto i contadini, chiusa la valvola dell’emigrazione, muoiono letteralmente di fame, i comuni, se il Governo non ne integrasse i bilanci, non potrebbero pagare neppure la levatrice, e gli usurpatori vivono sulle grame rendite della cultura estensiva, scrivendo poesie stecchettiane e risolvendo al circolo, con una burbanza idiota, i problemi della politica mondiale. Qui potrei rilevare, ad edificazione dei lettori, le infinite stupidaggini messe in giro dai giornalisti inviati sul posto, a cominciare da quella messa in giro da Gaetano Baldacci del “Corriere della Sera” e cioè, che il clero laggiù favorisce i moti popolari. Il clero, ove sente la sua missione, e vi sono - bisogna riconoscerlo- dei degni sacerdoti che la sentono, ha pietà per i dolori del popolo; ma io, che sono calabrese e conosco l’ambiente, debbo dichiarare con sincero dolore, che se la Calabria è quella che è, se il suo popolo invece di essere religioso, come lo è per sua natura, è idolatra, lo deve all’incredibile ignoranza e immoralità del suo clero. Dico questo nella mia qualità di fervente e sincero cristiano. Quel che potrebbe fare laggiù un clero conscio della sua missione e del suo potere è incalcolabile, perché ancora la Chiesa in Calabria è quello che era nel Medioevo; il solo approdo e il solo conforto nella vita del popolo. Essa è il teatro, il cinematografo, la conferenza, il concerto, la scuola: centro potenziale di irradiazione di ogni impulso e di ogni attività spirituale. L’immenso potere educativo del Vangelo in nessuna regione d’Italia ha possibilità di essere sentito e assorbito come in Calabria, terra abitata da una razza austera, di carattere forte e passionale e meditativo, attaccata alla famiglia e ai valori tradizionali, istintivamente buona e ospitale e di una umanità commovente, a cui l’ha educata il suo lungo soffrire. Invece i preti laggiù, nella cui casa esiste il grande libro, sono pochissimi. Io ricordo di aver pernottato nella baracca squallida di un parroco, che era stato sfregiato per questioni di donne, ed era ricorso al mio patrocinio legale, e poiché un esercito di pulci non mi lasciavano dormire, chiesi una Bibbia per ingannare l’insonnia. Non solo non ve la trovai, ma non trovai alcun libro di nessun genere, neppure il catalogo gratuito dei Fratelli Ingegnoli. Per concludere, caro Ingrao, la situazione delle classi non abbienti laggiù è tale, che senza la incredibile capacità di sofferenza di quelle popolazioni non sarebbe sostenibile. Davanti a tanto dolore non è una questione di essere comunisti o socialisti o liberali o di qualsiasi altro partito, basta essere uomini e avere letto anche una sola volta la parabola del Samaritano, per sentirsi assaliti da un impeto di ribellione. Una società che apporta un simile stato di cose, o peggio, lo favorisce non ha il diritto di

chiamarsi cristiana. Ma ahimè! Di molti cristiani oggi si potrebbe dire quello che un critico francese diceva del Visconte di Chateaubriand. Si credono cristiani ma non sono che dei signori, i quali si pongono davanti ad una vecchia cattedrale ed esclamano: Quanto è bella!

Fraterni saluti.

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