I CONQUISTATORI: UN ROMANZO RISORTO

 


Mario La Cava - 24 Febbraio 1946

Esce nuovamente alla luce, pei tipi di Garzanti, dopo venti e più anni di silenzio, da quando le copie superstiti vennero dai fascisti bruciate su una pubblica piazza a Roma, e quelle vendute furono rastrellate una per una nelle perquisizioni domiciliari, il primo romanzo del Perri di vasta ispirazione politica: «I Conquistatori», nel quale con senso di poesia e di verità umana sono rappresentate le lotte sanguinose dei partiti nel dopoguerra del '18, finite con la tragica vittoria del Fascismo. L'autore, narrandone la sorte editoriale in una brillante e pensosa prefazione, tocca uno dei tasti più dolorosi della defunta tirannia, quello della schiavitù culturale, nella quale ogni sforzo sincero di serenità artistica e morale fatalmente era costretto a naufragare, mentre l'oscurità e la fame, quando non si fosse arrivati al carcere, era il triste retaggio di quanti nobilmente vi si fossero opposti. E noi oggi, rileggendo il romanzo con quel distacco che sempre si prova alla considerazione di un passato triste e lontano, sentiamo l'animo riempirsi di malinconia, che è come una musica nostra che dolcemente si accompagna a quella diversa, e pur nobilmente austera, dell'autore colla sua appassionata tristezza che dalle lotte degli uomini si eleva fino alla contemplazione tragica della natura tutta. Pensiamo con dolore quanto gravi sono state le conseguenze di quelle contese e tali che nessuno le avrebbe potuto prevedere, e quanto lungo è stato il nostro cammino nei tormenti fino alla presente sciagura; e nello stesso tempo constatiamo come si siano mutati, malgrado ogni apparenza in contrario, i termini dei contrasti sociali e come quello che prima ci muoveva a ira e a  pietà oggi ci lasci piuttosto tranquilli.


I conquistatori - Garzanti


Siamo in grado perciò di valutare con la dovuta serenità la giustezza del punto di vista dell'autore nel mettere a fuoco i fatti narrati. Causali del dramma sociale che si abbatté in modo particolare sull'Italia del dopoguerra del '18 sono state in egual misura tanto le insolenti e bestiali pretese del proletariato agricolo e industriale quanto gli avari calcoli e la malvagia indifferenza dei fittabili e degli industriali; tanto il rivoluzionarismo dei socialisti quanto la combattività dei fascisti, e insieme con tali passioni, mescolati ad esse in modo spesso indistricabile, i più alti sentimenti dell'animo umano, la patria o l'umanità, il rispetto del passato e la fede nell'avvenire. Si sente che il Perri è stato spettatore, e in parte certo anche attore, delle gravi vicende che narra, e tale fatto contribuisce a dare calore di vita alle scene rappresentate; mentre il suo distacco da ogni personale interesse e l'amore obbiettivo per la verità importano alle sue pagine valore di testimonianza storica, come ben giudicò Cecil Sprigge, che se ne intende, riconoscendo nei «Conquistatori» uno dei documenti più cospicui intorno alle origini del Fascismo. 

Da tale senso della storia, che mai vien meno nelle pagine del Perri e che sempre sussiste, pur eventualmente nelle inesattezze materiali, quando l'amore per la verità delle cose valga più degli interessi ristretti di partito o di persona, viene pure come conseguenza il pregio della bellezza artistica del romanzo: non essendo concepibile bellezza là dove il lettore è messo in sospetto che non una verità generale è messa in luce, ma altra, che se non è proprio bugia, è qualcosa che dagli interessi privati o di gruppo viene alterata. Scoglio grave in simili narrazioni a sfondo politico, ma che è stato superato dal Perri in modo mirabile e raro, con una schiettezza, preveggenza e umanità che stupisce quando si mette in rapporto l'opera con l'epoca turbinosa in cui essa è stata scritta.

Il romanzo, come abbiamo accennato, rappresenta le lotte dei partiti nel dopoguerra del '18, in una zona della Lomellina, tra le più rissose. Su uno sfondo di natura, dipinto come avrebbe fatto un pittore con vivezza e precisione e meraviglioso colore, tale da essere individuato perfettamente con i suoi placidi canali, i pioppi allineati, la floridezza del suolo coltivato e la malinconia dei suoi orizzonti, si muovono vaste masse di popolo in rivoluzione. Ed in queste, come nelle descrizioni di natura, il loro aspetto d'insieme viene rappresentato con quel senso di veemenza, e con quel fatale svolgimento di cose che danno ai moti della folla il carattere degli eventi naturali. Intrighi di proprietari terrieri e industriali che assoldano giovinastri reduci dalla guerra o cresciuti in ambienti corrotti o esaltati, con nostalgia di quanto alla guerra si connette per ardimento e crudeltà, dando loro per bandiera l'insegna della spavalderia e del più nebuloso patriottisimo, che il loro condottiero, il Duce, chiamò Fascismo, preparano le azioni che di violenza in violenza conducono alla distruzione delle organizzazioni operaie e al trionfo della nuova gioventù che serviva gli interessi dei più  ricchi. Tra questi spicca con notevole rilievo il proprietario terriero, Siro Gorio, venuto su dal nulla, laborioso ed avaro, astuto ed a suo modo idealista di una specie di idealismo che poneva nel trionfo della propria famiglia il più alto scopo della sua esistenza. Due suoi figli maschi hanno gran parte nelle imprese delittuose dei fascisti, di cui è descritto con minuziosa cura, se pure un po' faticosa, un circolo di depravazione e di imbrogli. Ma Siro Gorio rimane vittima di un attentato operato contro di lui dai braccianti esaltati, non senza prima avere imposto alla figlia, un tenero fiore di giovinetta appassionata e dolce, il suo volere  nel matrimonio progettato con un ricco industriale depravato.

Giacinta, che così si chiama la giovinetta, in un momento di crisi spirituale, mentre si vede abbandonata dall'uomo che segretamente ama, per un eccesso di scrupolo di lui che, non potendola sposare, la lascia libera delle sue decisioni, dice di si al brutto pretendente. Soffre  moltissimo, e le sofferenze giungono al massimo quando si sente incinta da quell'uomo che odia. Incontrando il suo vecchio innamorato si dà a lui, per la prima e l'ultima volta, poiché dopo si uccide in un momento di esaltazione amorosa, provando raccapriccio per quel bimbo che nutriva nel suo seno, frutto non dell'amore, ma di una costrizione odiosa. E così con una orribile tragedia familiare, originata da quegli stessi semi di sordido egoismo e di brutale malvagità che, gettati inconsideratamente sulla società, produssero la distruzione delle libertà civili, si conclude questo romanzo disperato, nel quale le ultime parole sono gli inni di vittoria cantati spavaldamente dalle squadre fasciste sulle rovine della patria.

Se non che il romanzo, che si legge di un fiato e con palpitante interesse, non ci sembra, ad un'attenta osservazione, fuso nelle sue due parti fondamentali del dramma sociale e di quello privato, della vicenda epica e di quella tragica, con perfetto equilibrio e con persuasiva forza logica. Ci fosse questo, e allora si potrebbe parlare di capolavoro. Così com'è, difetta di un'idea unitaria chiaramente ed efficacemente espressa, se pure intuibile. In ogni modo, il dramma sociale ci sembra meglio riuscito, più ricco di verità di quello privato. Anche in questo però ci sono bellissime scene e molti sentimenti sono analizzati con poetica facondia. La passione di Siro Gorio per le sue terre, la sua volontà di lavoro, il suo carattere tenace e battagliero, restano vivi nella nostra memoria e l'umanità loro si imprime nel nostro cuore con simpatia. Le trepidazioni di Giacinta, il suo amore e il suo dolore sono analizzati con una dolcezza che culla piacevolmente, come in un sogno, i nostri animi. Episodi minori, quali quelli dell'amore umile e rassegnato della povera amante di Siro Gorio, e della sua triste fine, dopo la morte del padrone, e anche, benché in misura minore, quelli della mondana, la bella Maghelona, ripudiata dal suo amante, poiché non gli fa più comodo, sono tra le cose più belle del libro.

Ma, in generale, si può dire che i personaggi non sono creature di fantasia, vive per se stesse, ma strumenti dell'azione, e in questa è concentrato l'interesse dell'autore; sono perciò vaghi, tranne quelli ricordati sopra, e riescono evanescenti come ombre.Quelli riusciti, sono individuati non con una tecnica che cerchi di carpire l'intimo di essi, fissandosi soprattutto sui dialoghi e sulle notazioni di carattere, ma con una tecnica esterna, descrittiva e pittorica, che più colorita non avrebbe potuto essere, ma che, per la sua natura, è meno capace di delineare i contorni delle figure con la potenza dei grandi romanzieri psicologi. Oltre a ciò, vari rapporti dei personaggi tra di loro sono appena accennati o trascurati, con grave danno della verosimiglianza del racconto e della perspicuità dei caratteri che dalle relazioni reciproche avrebbero dovuto pigliare rilievo: come per esempio, i rapporti tra Giacinta  tanto buona, mite e gentile, e i suoi fratelli avventurosi e violenti. Alcuni stati d'animo non ci sembrano sufficientemente analizzati e chiariti, come quello dell'innamorato di Giacinta, il magistrato, che tutto preso dai suoi scrupoli, la lascia; certi fatti ci risultano psicologicamente inspiegabili, in base alle notazioni date, come la denunzia che fa dei fratelli Giacinta, quella stessa Giacinta che tacque il giorno in cui andò a nozze, sapendo che si tramava contro la vita di un pover'uomo. Né l'odio contro la stessa creatura che portava nel seno, motivato dall'antipatia che aveva verso il marito, e che in se stesso ci sembra uno dei motivi più drammatici del romanzo, ci pare sufficientemente espresso.

Insomma, vari sono i punti deboli del romanzo, su cui è inutile soffermarci: poiché a noi pare piuttosto convenga rilevare la bellezza, che dai difetti non viene compressa, e che consiste soprattutto nell'espressione affascinante dei moti della folla, degli intrighi delittuosi, dei sentimenti d'amore, degli spettacoli della natura. Fatti questi sui quali lo sguardo dell'autore si posa con ingenua meraviglia, che è la più semplice e poetica intuizione della vita, più che con intellettuale comprensione. Un sentimento religioso sorge dalla natura in sé stessa, e tutto quanto avviene, azioni degli uomini od eventi del destino, sembra avvolto da un unico, prodigioso colore. Il quale non è intinto ancora, come nelle opere successive, nella varietà quasi infinita degli aspetti della vita, col suo dolore e le sue gioie, che danno la pace del cuore nell'accettazione umile del dramma che quotidianamente si svolge, ma  partecipa del tono fondamentale vissuto dall'autore: quello delle tenebre che vincono la luce, quello del male che trionfa del bene e rende vana ogni speranza di giustizia. Donde forse quel suono di eloquenza, non tutta trasfu-sa in poesia, quel carattere acerbo di polemica tenuta col destino, per cui appare giustificato il giudizio verbale espresso da G.A. Borgese, fin dal primo apparire del romanzo, e ricordato dall'autore: «Libro torbido ma molto ricco». Dove la ricchezza è data non solo dall'impeto di vita che sembra straripi dalle pagine del romanzo, nel quale è racchiusa per la meditazione di quanti pensano e soffrono, ma è ugualmente offerta dalla bellezza dello stile, musicale e pittoresco, semplice e immaginoso, abbondante senza essere gonfio, vigoroso e piacevole, e così dolce e persuasivo da dare sempre quasi, anche quando non ci sia, l'illusione di una continua e costante poesia.


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